martedì 1 maggio 2018

Primo maggio 2018, festa di quale lavoro?

La Festa del Lavoro; quale festa, di quale lavoro, di quali lavoratori, di quali vite?
Una giornata per parlarne, per ricordare, per richiamare l'attenzione sulla domanda che attraversa la trasformazione del mondo del lavoro, una trasformazione che in 20 anni ha cambiato narrazione e senso comune, percezione e realtà di quel gesto arcaico che è il guadagnarsi da vivere.

La domanda, da qualche tempo é non più

Che lavoro fai?   ma    Che contratto hai?

Perchè in 20 anni, partendo dal Pacchetto Treu che introdusse la flessibilità legittimando di fatto la precarizzazione dell'esistenza, aprendo una breccia liberista su tutele, diritti, garanzie e dando nuovi nomi alla regolamentazione dei rapporti di lavoro. Co.co.co; Co co pro.... 
Quanti fra i 40enni e 50enni di oggi entrarono nel mercato del lavoro sotto queste sigle che sembravano innocue.

Segui la legge Biagi; il lavoro diventa occasionale, accessorio, a chiamata.
Sarà poi il tempo della Legge Fornero che rivede i contratti, riforma gli ammortizzatori sociali e norma la flessibilità in uscita.
Ultimo provvedimento è il Jobs Act che di fatto crea occupazione saltuaria, ricattabile, precaria e povera.

La liturgia mediatica sulla giornata si apre con le dichiarazioni della classe dirigente: 

il presidente del Consiglio ancora in carica, perchè del nuovo governo non vi è traccia, 
i sindacalisti, 
Papa Francesco che ricorda la festa di San Giuseppe lavoratore; 
tutti hanno fatto appello alla dignità del lavoro, ai diritti, al contrasto alla precarietà, ai giovani disoccupati. Nello spicchio di luce che illumina questo 1 maggio 2018 restano nel cono d'ombra i precari della generazione di mezzo, quella che ha visto trasformarsi certezze e futuro sulla propria pelle.

giovedì 12 aprile 2018

In cattedra con la valigia

Il sogno di una cattedra, il treno  regionale all'alba direzione Roma, l'attesa in un bar si una chiamata dal Provveditorato prima delle otto, la speranza affidata ad un telefono che può squillare e anche rimanere muto.
Vivono questa condizione sospesa e drammatica gruppi di donne, maestre della scuola primaria, che ogni mattina tentano la lotteria di un lavoro.

Se ne parlerà martedì 17 a Napoli al centro Officine Gomitoli.



Uno spicchio di realtà duro ed ingiusto che rivela un mondo sofferente e amaro, disincantato ma non rassegnato, frutto di leggi ingiuste, di provvedimenti ratificati da una classe dirigente cieca che non ha occhi per guardare al futuro, che non si è posta domande e che avrebbe invece fatto bene a farsene.

Che qualità di insegnamento può garantire una professionista  a chiamata?
E se fosse l'insegnante di mio figlio?
Ed io potrei nel buio della notte, sopravvivere a questa lotteria professionale ed umana?

Una società che  consente che questo accada non può avere l'ardire di chiamarsi comunità. 

Questo capitolo specifico curato da un gruppo di sociologi della Federico II guidati da Giustina Orientale Caputo, fa parte di un volume, curato  da Michele Colucci e Stefano Gallo,   che raccoglie saggi che analizzano i cambiamenti che hanno attraversato l'insegnamento elementare. Dai primi del Novecento  infatti, i meccanismi di accesso alla professione,  hanno trasformato come questo lavoro femminile, sicuro in una corsa ad ostacoli densa di incertezze.




lunedì 5 marzo 2018

Elezioni 2018: Il coraggio mancato della sinistra sulla precarietà dei cinquantenni

Se una cosa non la conosci, non ne hai percezione, non te ne puoi occupare; al più ne puoi debolmente parlare. 
Che cosa ne sa un parlamentare uscente ricandidato della difficoltà di un cinquantenne che vive di un piccolo stipendio, frutto di un piccolo contratto che può essere strappato in qualsiasi momento. Che ne sa del furto di futuro, del non poter guardare con serenità al prossimo anno.
Se è vero che ciò che non si conosce non si nomina perchè non fa parte del tuo orizzonte di esperienze, ciò che non si nomina non esiste. 
Al massimo li abbiamo sentiti timidamente accennare alla precarietà del lavoro dei giovani.
Senza coraggio, senza convinzione, forse per timore che la questione possa toccare i loro figli e nipoti.

Gli schiacciati, quelli in mezzo, nati negli anni Sessanta, cui è stato promesso un futuro di classe agiata e invece sono i disagiati, venuti al mondo indossando gli occhiali sbagliati, il mondo lo hanno visto deformato e quando li hanno tolti hanno scoperto che la realtà aveva contorni e consistenze tutte diverse.
Da figli della classe agiata ad adulti della classe disagiata.
Figli di una generazione che per la prima volta sta peggio di quella dei genitori.

Nell'analisi del giorno dopo qualcuna invita a ristabilire la connessione sentimentale con le persone. Ogni tanto qualcuno, a sinistra,  dice questa frase ad effetto. Recuperare la rappresentanza e  voti  che stanno già da un'altra parte, sotto un cielo stellato, è arduo; che si finto o vero il cielo non possiamo saperlo ora.

Del resto non si è rivelato illusorio il cielo che copriva di speranze  i giovani degli anni '80?
Certo è che chi ha votato quel progetto è perchè non ne ha visto un altro credibile da un'altra parte e sentendonsi tradito ha pensato che non aveva niente da perdere. Tanto trasparente era e trasparente sarebbe rimasto, con il suo piccolo contratto da difendere o la piccola pensione dei genitori anziani cui attingere. 

Il rancore attraversa questo nostro tempo e con rancore le vittime di un sistema che vorrebbe solo autoconservarsi hanno lanciato un grido silenzioso.






mercoledì 3 maggio 2017

Vite vere (anche) nei numeri. Istat certifica aumento disoccupazione over 50


La precarietà non è solo questione che aggredisce e condiziona la vita e la scelta dei giovani. La precarietà silenziosa e furente  perché segna drammaticamente quotidianità e futuro, fa vittime nella generazione di mezzo, quelli intorno ai 50. Nati negli anni Sessanta, formati, soprattutto al Sud all'importanza dello studio, allevati all'ambizione del posto fisso, vittime - soprattutto al Sud - del perverso e amorale scambio consenso politico-occupazione.

Lo dico qui da tempo e oggi arriva anche l'Istat a certificare l'esistenza precaria nella società contemporanea italiana dei cinquantenni beffati dalla mezza età.

http://www.lastampa.it/2017/05/03/economia/nella-corsa-alla-disoccupazione-i-vecchi-sorpassano-i-giovani-cuw8JV5NLLwKkCjGO7Ia6N/pagina.html


Tra febbraio e marzo 2017 i disoccupati «anziani» sono aumentati di 59 mila unità, 103 mila in più rispetto a marzo 2016. Ciò ha portato il tasso di disoccupazione ad aumentare al 6,7%, il livello più alto da novembre 2014 in questa fascia di età. 
Per l’Istat è la prima volta che accade dall’inizio delle serie storiche mensili (2004). Nelle classifiche del lavoro precarizzato e povero in Italia, questo storico sorpasso sembra essere dovuto principalmente alla fine della mobilità e alla riduzione temporale degli ammortizzatori sociali decisi dal Jobs Act.

Ora, avuto il timbro di esistenza del più importante istituto di rilevazione italiano, lo dice l'Istat quindi il fenomeno esiste, chi si occupa della vite in frantumi ed in equilibrio precario di queste persone, chi li rappresenta portandone le istanze ai decisori politici ed istituzionali, nei luoghi dove si mettono in campo proposte di welfare e le politiche di sviluppo per chi da tempo è inesistente dal dibattito pubblico.




domenica 26 marzo 2017

Robert Castel: Incertezze Crescenti - gli scollegati

E poi succede che quel che hai capito e scritto lo trovi teorizzato da un grande sociologo.
Sto leggendo Incertezze Crescenti di Robert Castel, me lo ha consigliato Alfredo Cavaliere, studioso delle trasformazioni contemporanee e mio amico dai tempi dell'università. Una lettura preziosa per me e per questo blog.  Mi appassiona, è un testo complesso che sento pagina dopo pagina vicino a me. Più leggo e più mi chiedo come ho fatto a stare senza?

A pagina 23 le prima folgorazione:

"Sul piano dell’organizzazione, innanzitutto, assistiamo a una crescente individualizzazione dei compiti, la quale esige mobilità, adattabilità, assunzione di responsabilità da parte degli “operatori”, come si usa dire oggi giacché il termine “lavoratore” non è più up to date...  ,,, il collettivo di lavoro può anche essere sciolto completamente, come succede nel lavoro in rete: gli individui si collegano per la durata della realizzazione di un progetto, si scollegano quando esso è terminato, pronti in seguito a ricollegarsi diversamente per realizzare un nuovo progetto..."
... il lavoro si organizza in piccole unità che autogestiscono la loro produzione, le imprese si servono ampiamente di lavoratori interinali e a contratto, e praticano il subappalto su larga scala. I vecchi collettivi di lavoro sono cancellati e i lavoratori sono messi in concorrenza gli uni con gli altri, con effetti profondamente destrutturanti sulle solidarietà operaie..

...Le carriere professionali sono diventate discontinue e hanno smesso di essere inserite nelle regolamentazioni collettive dell’impiego stabile. È così lo statuto stesso dell’impiego a trovarsi destabilizzato attraverso la discontinuità delle traiettorie e la fluidità dei percorsi..."

Il 23 febbraio di 3 anni fa ho scritto Colleghi Scollegati  http://sillabarioprecario.blogspot.it/2014/02/colleghi-s-collegati.html
ne riporto un pezzetto, era quel che avevo capito senza conoscere gli studi e le analisi di Castel

"A ciascuno il suo contratto e quindi a ciascuno la sua trattativa personale e riservata. Con buona pace di parole conquistate nel Novecento: diritti e dignità del lavoro, contrattazione collettiva, sciopero, compenso minimo sindacale. Parole svuotate ed archiviate nel caos conveniente di 36 o forse addirittura 42 forme di contratto che regolano i rapporti di lavoro fra datori di lavoro e lavoratori.

Una giungla che genera colleghi scollegati: ci si incontra per un tempo limitato, si fa grossomodo lo stesso lavoro, nella stesso posto ma chiusi ciascuno nelle sua traiettoria personale ci si guarda bene dal condividere le informazioni su modalità e tempi d'assunzione, compiti, orari, impegno in ufficio o da remoto, compenso, in bianco, a nero.E poi non sempre c'è la corrispondenza fra quel che si fa e quel che è scritto sul contratto".

L'essere confermata da una mente infinitamente più grande ed attrezzata della mia un po' mi gratifica intellettualmente ma non colma il profondo senso di ingiustizia.




mercoledì 8 febbraio 2017

Michele: "Ho resistito finché ho potuto". Non c'é altro da aggiungere


“Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi.
Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene.


Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità. Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. 


Non la posso riconoscere come mia.Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile. A quest’ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo.Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. 


È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive. Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.


Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare. Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. 


Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. 


Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno.Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie. Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, io modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. 

Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri.Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. 


Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino. 


Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene.Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento.


P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi.

Ho resistito finché ho potuto”.

giovedì 3 novembre 2016

In bici senza sella. Sole Cuore Amore. 7 minuti: La precarietà in 3 film.

Pedalare senza potersi sedere. Continuare ad andare avanti verso il futuro incerto e non poter contare su alcuna comodità materiale, morale,  mentale. Essere precari è una fatica quotidiana. Cercare lavoro diventa un impegno  estenuante senza orizzonte né fine per i trentenni, i quarantenni, i cinquantenni che abitano la contemporaneità italiana.
E la precarietà narrata con tinte  iperrealiste e grottesche arriva oggi al cinema con il film ad episodi "In bici senza sella" nato da un'idea di Alessandro Giuggioli che ha messo insieme 7 registi esordienti: Francesco Dafano, Chiara De Marchis, Matteo Giancaspro, Cristian Iezzi, Gianluca Mangiasciutti, Giovanni Battista Origo, Sole Tonnini. I toni narrativi sono quelli della commedia all'italiana capace di raccontare, far riflettere, far sorridere.
                                                                   
Un riso amaro alimentato dalla consapevolezza che il vivere senza certezze è una condizione trasversale che colpisce ed attraversa tutte le generazioni e tutti i ceti sociali. 
Il lavoro, realizzato in pieno stile precario cioè a costi ridotti e con un'azione di crowfunding,  è stato molto ben accolto alla Festa del Cinema di Roma ed è stato presentato anche alla Sapienza - facoltà di Economia, aula magna Ezio Tarantelli; luogo fortemente simbolico intitolato all'economista ucciso dalle Brigate Rosse nel 1985,  per aver teorizzato e proposto misure per la difesa del salario dei lavoratori.

"Una proiezione che è stata un grande successo - racconta Sole Tonnini - regista e autrice  degli episodi  "I precari della notte" (realizzato insieme a Gianluca Mangiasciutti)  e "Il posto fisso"che chiude il film - proiezione è proprio la parola giusta: 1200 studenti si sono visti proiettati nel futuro che li attende alla fine degli studi, si sono divertiti molto ma hanno anche condiviso molte riflessioni". Proprio in quell'aula che ha visto l'elaborazione e lo studio di tante politiche economiche italiane.

Lo dice bene  Giovanni Battista Origo che apre il lavoro con "Il Santo Graal": "La precarietà si sta abbattendo anche sui giovani della middle class,  un tempo al riparo, ce ne stiamo accorgendo ora ma è da anni che la trasformazione dell'accesso al lavoro sta lavorando sottotraccia nella società italiana, creando disagio e sofferenza. Raccontarla contribuisce a farla diventare sofferenza condivisa".

Sofferenza privata delle persone che sta nella carne e trasforma in peggio prima i giorni e poi gli anni: il cinema la racconta e accade  in questi giorni non solo con quest'opera ma anche con "Sole, Cuore Amore" di Daniele Vicari e con "7 minuti" firmato da Michele Placido.
Sono storie di uomini e donne che sull'altare del lavoro spezzato vedono frantumarsi esistenze e speranze. La macchina da presa scruta, cattura e narra; gli economisti elaborano i modelli; i sociologi osservano e studiano gli umani adattamenti alle trasformazioni. 

Ai decisori politici starebbe la responsabilità di intervenire, correggere le ingiustizie, governare il cambiamento perché tutti possano essere padroni e non vittime del futuro.